Ayra sapeva di dover fare qualcosa per scoprire quale sorte fosse occorsa ai suoi compagni, ma fino a quel momento non era stata in grado di formulare un piano d’azione abbastanza convincente. Aveva scartato l’ipotesi di fare irruzione urlando selvaggiamente allo scopo di intimorire gli eventuali avversari, così come quella di utilizzare la pergamena del comando per soggiogarli, perché il solo ordine che le veniva in mente di impartire era “Abbaia!” e non le sembrava di grande utilità nel bel mezzo di un combattimento. Indispettita, valutò l’idea di restare ancora un po’ in attesa degli eventi.
In fondo, le era stato ordinato di rimanere a guardia dei cavalli, mentre i suoi compagni esploravano la dimora di Dhurz l’Alchimista, e non di imbarcarsi in pericolose missioni di soccorso. Da quando, poche settimane prima, si era unita a questo gruppo di avventurieri, oggi era la prima volta che si trovava a dover prendere una decisione di tale importanza, i cui risvolti avrebbero potuto essere fatali, non solo (e non tanto) per i suoi compagni, ma anche (e soprattutto) per se stessa. Era pronta a rischiare la vita per degli estranei a cui in fondo era legata soltanto da spirito di avventura, sete di gloria e fame di ricchezza?
***
Aveva accettato di unirsi a questo gruppo assecondando un’improvvisa, quanto sconosciuta, passione per il ruolo di avventuriero, fino ad allora sopita dalla monotonia della vita che trascorreva sempre uguale nel villaggio in cui era stata allevata. Delle sue origini non sapeva nulla. Appena nata, era stata abbandonata sui gradini del Tempio di Pelor e l’unico, flebile, legame con il suo passato era il simbolo sacro al dio Kord che fissava le fasce che la tenevano avvolta. I sacerdoti del Tempio l’avevano raccolta ed allevata secondo i propri principi religiosi, instradandola quindi alla vita monastica e contemplativa.
Crescendo, tuttavia, Ayra aveva manifestato una profonda insofferenza nei confronti della rigida regola a cui era sottoposta nel Tempio, e sognava una vita lontana dal villaggio in cerca di indizi che facessero luce sulla sua reale discendenza e sul peso che Kord, dio della forza e del vigore fisico, avrebbe dovuto avere sul suo destino.
L’inatteso arrivo in paese di un eterogeneo gruppo di avventurieri, aveva scatenato in lei un desiderio incontrollabile di realizzare il suo sogno e, senza nemmeno rendersene effettivamente conto, si era ritrovata tra la folla che accerchiava gli stranieri in cerca di notizie, storie o favori. Stando a quanto si diceva, gli stranieri provenivano dalle terre oltre il Deserto di Roccia ed erano all’inseguimento di una carovana che trasportava un carico di morte. Nonostante la gravità della situazione, tuttavia, non sembravano particolarmente ansiosi di proseguire: avevano altresì preso alloggio alla taverna del villaggio e, secondo alcuni, erano propensi ad aiutare Madame Hucrele nel rintracciare i figli scomparsi diversi mesi prima.
Un paio di giorni più tardi, in effetti, gli avventurieri erano partiti alla volta delle rovine della cosiddetta Cittadella senza Sole, tra le lacrime di speranza di Madame Hucrele e gli applausi di incoraggiamento di quanti scommettevano pro e contro il loro ritorno.
Nei giorni successivi, ci fu chi affermò di aver visto fuggire, dalle rovine della Cittadella, la colonia di goblin che da sempre vi dimorava, mentre altri sostennero che il misterioso proliferare di vegetazione maligna degli ultimi mesi era bruscamente cessato, ma in pochi attribuirono il merito di questi eventi alle azioni degli stranieri dei quali, peraltro, non si aveva più alcuna notizia.
Poi, finalmente, quando già ci si apprestava a riscuotere le prime scommesse, gli sconosciuti avventurieri erano ricomparsi all’orizzonte, un po’ malconci e ridotti di numero, ma trionfanti e carichi di tesori. Ayra, naturalmente, fu tra le prime a raccogliersi intorno al gruppo per ascoltare le loro gesta, mossa da un’emozione tanto sconosciuta quanto inarrestabile.
Purtroppo, gli avventurieri non erano riusciti a salvare i fratelli Hucrele, né in verità a riportarne indietro i resti, ma in compenso avevano ripulito le rovine della Cittadella dall’oscura presenza di un druido malvagio di nome Belak e dalla presenza di una fastidiosa tribù di goblin. Nel corso dell’eroica impresa avevano perduto un compagno, Def Hunter, che ora riposava avvolto in una coperta in attesa di una miracolosa quanto costosa resurrezione, ma ne avevano reclutato un altro, uno gnomo di nome Erky Timbers ex prigioniero dei goblin. Certo, la loro missione principale poteva dirsi fallita e anzi, come Ayra seppe in seguito, si guardarono bene dal raccontare che uno dei fratelli, caduto sotto l’influsso di un sortilegio, era rimasto ucciso per loro stessa mano. Tuttavia, il servigio che essi avevano reso al villaggio era stato senza dubbio notevole e per questo furono accolti con grandi festeggiamenti dalla cittadinanza.
Tornata al Tempio di Pelor, Ayra narrò al Patriarca, suo padre putativo sin da quando era stata abbandonata in fasce, tutti i particolari dell’avvincente storia che aveva ascoltato, mostrando un fervore ed una passione tali che lo stesso sacerdote ne restò turbato e, per la verità, anche un po’ infastidito. Da tempo, infatti, conosceva quello che albergava nel cuore di Ayra e ben sapeva che non avrebbe potuto trattenerla a lungo, ma forse non pensava che il momento del distacco sarebbe giunto così presto, né che a renderla così impaziente sarebbe stato un improbabile gruppo di avventurieri venuto da chissà dove e mosso da chissà quali ambizioni. Il Patriarca, piuttosto, avrebbe desiderato che Ayra fosse stata mossa dall’impulso di riparare alle ingiustizie causate dalla fede nei falsi dei o quantomeno dalla brama di diffondere nel mondo il verbo della divinità nel cui nome era stata accolta ed allevata, il motto Più Pelor Per Tutti, che campeggiava sull’architrave del Tempio e che tutti i sacerdoti solevano ripetere al termine di ogni liturgia. La consapevolezza che questi non erano, e mai sarebbero stati, gli intenti profondi che l’animavano ed il senso di frustrazione per averlo intuito soltanto adesso, lo indispettirono e lo indussero a risolversi per fare in modo che gli avventurieri accogliessero Ayra nel proprio gruppo.
Quando, il giorno seguente, gli stranieri si presentarono al Tempio per chiedere udienza affinché fosse resuscitato lo scomparso Def Hunter con l’ausilio di una potente pergamena da essi rinvenuta nelle rovine, il Patriarca interpretò l’evento come un segno della benevolenza di Pelor e non si lasciò sfuggire l’opportunità di realizzare il suo piano.
“Se il vostro compagno ha ancora un ruolo da svolgere nel grande disegno di Pelor, allora sarà resuscitato”, disse con voce solenne, “ma in cambio voi dovrete accogliere nel vostro gruppo la mia novizia e accolita Ayra”.
I compagni non ebbero nulla da obiettare. Secondo un vecchio adagio in voga tra gli avventurieri di tutto il mondo, infatti, un nuovo membro è un potenziale bersaglio in più per trappole e nemici e quindi di norma è ben accetto. Inoltre, da quando Erky Timbers, dopo la fugace e non felice esperienza vissuta tra le rovine della Cittadella, aveva deciso di appendere per sempre l’equipaggiamento al chiodo, il gruppo si ritrovava con un posto libero nelle proprie fila che provocava, tra l’altro, una fastidiosa asimmetria nell’allineamento dell’ordine di marcia e nell’attribuzione dei turni di guardia notturni.
Ayra, che senza farsi notare aveva seguito la conversazione, non fece caso alle motivazioni che avevano indotto il gruppo ad accoglierla, ma fu invece rapita dall’impazienza di avventurarsi, una volta per tutte, nelle terre selvagge e rimase immobile e sognante ancora a lungo dopo che i suoi nuovi compagni ebbero lasciato il Tempio.
***
Chi effettivamente fossero questi avventurieri e donde provenissero era per tutti un mistero. Di sicuro si sapeva soltanto che avevano oltrepassato il terribile Deserto di Roccia, tristemente noto per essere flagellato da tempeste di fulmini che raramente danno scampo; ma a parte questo, essi erano stati alquanto reticenti sulle proprie origini. Ad un primo sguardo sembravano il tipico gruppo di mercenari che progredisce grazie alle sventure altrui: uomini e donne, cioè, che sfruttano le loro qualità al di fuori dell’ordinario per debellare i mali del nostro tempo e contemporaneamente accrescere in fama e ricchezza.
Quando si erano presentati al villaggio erano in cinque, in rappresentanza di tre razze e quattro professioni diverse. I loro nomi erano forse temuti e rispettati nelle terre d’origine, ma qui non li conosceva nessuno, nemmeno per sentito dire. Tuttavia, la presenza nel gruppo di un sacerdote di Corellon, il benefico dio degli elfi, rincuorava un po’ tutti circa la propensione morale degli altri membri.
Costui, ovviamente di razza elfica, si faceva chiamare Tzortzz e vantava essere l’alter ego splendente di un celeberrimo elfo oscuro delle sue parti, un tale di nome Drizzt Do’Urden. Il suo motto era siamo qui per portare il bene e, anche se nel pronunciarlo soleva accarezzare l’elsa della spada con un eccessivo piacere dipinto sul volto, a garantire per le sue intenzioni bastava il simbolo sacro di Corellon che campeggiava in bella vista sulla sua armatura.
Gli altri membri del gruppo avevano un aspetto assai meno rassicurante, a cominciare da Pfoffo, nano corazzato campione di aneddoti di scarso interesse, ma estremamente letale con una qualsiasi arma in pugno. Il suo nome tradiva la parentela con la casata nanica degli Pzar figli di Knar, stripe che in passato aveva votato innumerevoli eroi alla causa dell’avventura, ma egli né smentiva né confermava. Per dimostrare il suo valore, preferiva brandire, ad una o due mani, l’urgrosh appartenuto al padre; e con quello, in battaglia, menare terribili fendenti specialmente contro gli odiati orchi.
Non meno truce nell’aspetto appariva il terzo membro del gruppo, un selvaggio di nome Raba, umano dalla stazza imponente e dallo sguardo leggermente invasato. Indossava vesti ed armature leggere, anche se l’arsenale che si portava appresso lo connotava di certo come un esperto combattente. I più attenti avrebbero potuto riconoscere le cicatrici rituali che sfoggiava sul corpo, come il segno di appartenenza ad una qualche tribù proveniente da quel guazzabuglio di genti, sparse un po’ dappertutto, che mal sopportano leggi civili o fisse dimore e che la dura vita nelle terre selvagge ha reso meno sensibili al dolore e alla fatica, ma anche più rozze ed ignoranti. Di contro, il suo portamente tutto sommato decente ed il suo, a volte sin troppo, ampolloso eloquio, denotavano in lui un’educazione tale che solo chi fosse cresciuto in un mondo civilizzato avrebbe potuto possedere. Delle proprie origini, tuttavia, Raba non faceva parola e neanche Tibidi, il compagno del gruppo con cui in solitario aveva condiviso le prime esperienze di avventuriero, conosceva qualcosa del suo passato.
I due erano diventati solidali alcuni anni prima quando avevano ripulito, per conto degli abitanti di Com Orp, la miniera di Cumulin dai goblin che la infestavano e che da lì compivano scorrerie nelle campagne intorno al villaggio. A quel tempo Tibidi era un guerriero libero professionista alle prime armi, sempre in cerca di qualche avventura ben remunerata e di compagni con cui suddividerne oneri ed onori. Per una di quelle strane coincidenze che segnano per sempre la vita degli avventurieri, egli aveva risposto all’appello della cittadinanza di Com Orp proprio mentre Raba si accingeva a fare lo stesso e così da quel giorno, essi stabilirono di coprirsi le spalle a vicenda finché avessero percorso insieme le medesime strade.
Tibidi era senza dubbio il personaggio più carismatico all’interno del gruppo, anche se non spiccava come un vero e proprio leader. Emanava un fascino misterioso che gli derivava dalla sua non celata inclinazione alla stregoneria. Nonostante, infatti, cingesse al fianco una spada ben curata e che sicuramente sapeva maneggiare con destrezza, gli aromi speziati che lo circondavano e la disciplina mentale a cui evidentemente si sottoponeva, lasciavano pensare a lui più come ad un incantatore che ad un guerriero. E gli incantatori, si sa, per quanto affascinanti, non sono mai troppo amati dalla gente comune.
Infine veniva Def Hunter, un mezzelfo dall’aria scanzonata e sempre pronto alla battuta che non perdeva il proprio buon umore neanche dopo essere morto e risorto. Tra i membri del gruppo era quello di aspetto meno marziale, anche se il pugnale che nascondeva sotto l’ampio mantello non lo rendeva di certo inoffensivo. Il suo sguardo attento sembrava soppesare ogni borsa da cintura o gioiello che gli finiva sottocchio, subito seguito, se quelli davano l’impressione di essere abbastanza gonfi o abbastanza preziosi, da un sorriso di approvazione e dallo scrocchiare delle dita sottili.
***
Questi erano i compagni con cui Ayra avrebbe condiviso i suoi futuri viaggi, a cui avrebbe affidato la propria sopravvivenza e al cui fianco avrebbe combattuto forse fino alla morte. Chissà quali imprese li attendevano, quali sfide avrebbero dovuto superare, quali terribili pericoli avrebbero ostacolato il loro cammino. Un giorno, forse, i loro nomi sarebbero stati tramandati dai bardi in ogni angolo del mondo e le loro gesta avrebbero ispirato altri avventurieri ad emularli.
Ma prima di tutto c’era da spartirsi il tesoro rinvenuto nelle rovine della Cittadella e l’equipaggiamento dell’ormai ex compagno Erky.
“E la carovana che trasporta un carico di morte?”, chiese Ayra eccitata.
“Per quella c’è tempo”, le risposero in coro i compagni.
“Siamo appena usciti da un cumulo di rovine pericolanti”, proseguì stancamente Raba, “non pretenderai di ripartire subito, spero”.
“Io devo fabbricarmi un arco composito”, sentenziò Tibidi. E, dopo aver fatto un rapido calcolo mentale, aggiunse: “Mi ci vorrà almeno dieci settimane”.
Ayra rabbrividì al pensiero delle terribili conseguenze che questo ritardo avrebbe potuto avere e immaginò villaggi e campagne che si spopolavano al passaggio della carovana. Accorgendosi del suo imbarazzo, Pfoffo la rassicurò dicendo:
“Non temere Ayra, sono sicuro che raggiungeremo in tempo quella carovana”.
“E come fa un nano a fare questo tipo di predizioni?”, chiese sarcastico Tzorrtz. “E’ stato per caso l’urgrosh a suggerirtelo?”.
Pfoffo divenne paonazzo dalla rabbia e rimase senza parole mortalmente offeso. Aveva dovuto spendere fino all’ultimo pezzo d’oro per riscattare l’urgrosh appartenuto a suo padre, tanto che nei primi giorni di viaggio era stato costretto a seguire il gruppo praticamente in mutande.
“E comunque”, precisò Def Hunter per stemperare la tensione, “se mai dovessimo arrivare in ritardo la colpa è di quella guida che, millantando la conoscenza di una scorciatoia, ci ha fatto attraversare il deserto di roccia e poi ci ha abbandonato in quel dannato picco”.
“Non è certo per sua volontà che ci ha lasciato”, commentò Raba alludendo alla triste sorte del poveretto.
Tutto aveva avuto inizio qualche settimana prima, quando il gruppo era giunto a Passo Duvik, un piccolo ma prospero insediamento annidato in una delle molte valli che solcano le montagne note come Spire del Serpente. Il villaggio era alle prese con una misteriosa epidemia che, scoppiata dapprima tra coloro che lavoravano nella vicina miniera d’argento, si era poi propagata con estrema rapidità fra gli abitanti seminando panico, disperazione e morte.
L’intera regione, fino a poco tempo prima florida e meta per molti in cerca di fortuna, si era improvvisamente spopolata e nessuno osava più scavare i ricchi filoni d’argento nella miniera. Circolavano voci su un’oscura maledizione che era stata risvegliata nei recessi della montagna e che non si sarebbe placata fino a che Passo Duvik non fosse stato abbandonato. L’ultimo gruppo ad aver preso servizio nella miniera non era più tornato indietro e c’era chi raccontava di aver udito delle urla disumane provenire dall’imboccatura. Da quel momento, nessuno vi si era più avvicinato e si era provveduto a sbarrare il sentiero che vi conduceva.
Pochi ricordavano, tuttavia, che le fortune di Passo Duvik affondavano in realtà nel sangue di centinaia di orchi, massacrati non appena si era diffusa la notizia dell’esistenza di ricche miniere d’argento nelle montagne. In una tarda mattinata di circa dieci anni prima, gli abitanti del villaggio avevano sorpreso la tribù dei Lacerartiglio che viveva sui primi contrafforti delle montagne e l’avevano brutalmente sterminata. Al massacro era scampato solo il giovanissimo Jakk, il quale, invocando a proprio testimone Gruumsh, l’empia divinità degli orchi, giurò che da quel giorno non avrebbe avuto pace fino a quando non si fosse vendicato. Dopo che il dio gli ebbe rivelato il segreto della terribile Peste Ardente, Jakk se ne servì per infettare le sorgenti che alimentano i pozzi del villaggio e diffondere così il contagio tra gli odiati abitanti della valle. Le sue arti non lo avevano risparmiato dal contrarre egli stesso la malattia, ma, sebbene ormai in punto di morte, contemplava con fierezza il declino di Passo Duvik nascosto nel suo rifugio sotterraneo vicino alle sorgenti, la cui corruzione continuava ad alimentare e rafforzare, e pronto, al tempo stesso, a rintuzzare qualsiasi tentativo volto a salvare il villaggio dalla completa rovina.
Né Jakk, né Gruumsh, tuttavia, avrebbero potuto prevedere che a risolvere il mistero sarebbe stato incaricato il gruppo di avventurieri di cui ora faceva parte Ayra. Erano pronti a ricevere un paladino circondato dai suoi fidi scudieri, oppure una cricca di guaritori con le loro monotone litanie o magari anche un druido ed il suo bestiario; ma mai avrebbero immaginato di dover fronteggiare un concentrato di eroismo e stupidità quale quello rappresentato dai compagni che, dopo aver cinicamente contrattato sul prezzo dei propri servigi con una cittadinanza ormai allo stremo, avevano intrapreso la strada che conduceva alle miniere d’argento di Passo Duvik.
Qui erano attesi da una banda di coboldi che, all’oscuro delle trame di Jakk, avevano approfittato della debolezza degli abitanti della valle per occupare le gallerie e rivendicare la montagna come loro territorio dopo aver ucciso gli ultimi minatori di Passo Duvik. I coboldi, tuttavia, non erano immuni al contagio ed in breve anche la loro comunità si era ammalata subendo gravi e dolorose perdite. Gli avventurieri non si fecero certo impietosire da questa situazione e anzi, da una posizione di forza che derivava loro dall’aver fatto strage di tutti i coboldi fin lì incontrati, vendettero anche a questi i propri, sempre più costosi, servigi.
In uno stentato Comune, la matriarca della tribù accennò ad un’oscura maledizione che una figura zoppicante e ammantata di nero aveva risvegliato in qualche modo a lei sconosciuto nelle profondità della montagne. La creatura si circondava di servitori evocati dal mondo dei morti e quanti si avventuravano nel suo territorio non facevano mai più ritorno.
“Sai che novità”, commentò sbadigliando Raba.
“Magari ci si sono trovati talmente bene che hanno preferito rimanere”, scherzò Def Hunter.
“Non credo”, rincarò Tzortzz. “Deve essere un gran mortorio”.
“Me non capire”, disse la matriarca. “Voi pensare che miei figli potere vivere ancora?”
“Non vivere, semmai”, corresse Pfoffo, che poi, di fronte all’aria interrogativa della matriarca, aggiunse: “in tal caso ci penseremo noi, non ti preoccupare. Tu pensa piuttosto alla ricompensa che ci dovrai quando torneremo e non fare scherzi oppure… nessuno tra i tuoi figli vivere più”.
Di fronte al ghigno del nano, la matriarca si affrettò a rassicurare il gruppo sull’entità della ricompensa:
“Io dare a voi tutto tesoro di clan, fino a ultima scheggia d’osso”.
“Veramente speravamo in qualcosa di meglio”, mormorò Tibidi. E rivolto ai compagni chiese: “Non sarebbe meglio dare un’occhiata a questo favoloso tesoro prima di accettare?”.
“Non perdiamo tempo in queste sciocchezze. È nostro dovere difendere i più deboli”, gli rispose solennemente Tzortzz, che poi aggiunse sottovoce: “In fondo, se la ricompensa non ci avrà soddisfatto potremmo pur sempre massacrarli tutti”.
Terminate le contrattazioni, il gruppo proseguì nell’esplorazione delle miniere scendendo nei recessi più profondi della montagna dove furono accolti dagli orribili servitori di Jakk, ovvero cadaveri di minatori e di coboldi rianimati grazie ad innominabili riti di magia necromantica. Senza perdersi d’animo, Tzortzz sollevò in alto il simbolo sacro di Corellon e con voce ferma, vincendo l’orrore ed il raccapriccio che quegli abomini emanavano, recitò la consueta formula sacra: “Pussa via immonda creatura”. Il simbolo si illuminò immediatamente di un’intensa luce bianca che investì gli zombi costringendoli a retrocedere confusamente e trasformandoli in facile bersaglio per le frecce dei compagni che, uno dopo l’altro, li abbatterono tutti.
Sgombrata così la via, il gruppo proseguì verso la caverna principale del complesso ove, nei pressi della sorgente del fiume, si trovava Jakk continuamente intento alla sua opera avvelenatrice.
Inizialmente gli avventurieri credettero di trovarsi di fronte ad un altro immondo non morto e l’errore di valutazione rischiò di compromettere tutto. Mentre Tzortzz, infatti, ripeteva invano la formula consueta, Jakk rispondeva facendo calare una tenebra magica su tutto il gruppo che, disorientato, perse secondi preziosi prima di riorganizzarsi. A farne le spese fu dapprima Raba, bloccato da un incantesimo di paralisi, e quindi Def Hunter, fuggito in preda ad un terrore anch’esso indotto magicamente.
Nel frattempo, altri servitori di Jakk erano giunti in suo aiuto e nella caverna era scoppiata una mischia feroce. Tibidi, che si era affrancato dall’oscurità, si diresse contro l’orco sciamano con l’intento di abbatterlo, ma i suoi primi affondi furono tutti rintuzzati. Quando tutto sembrava ormai perduto, il “Dado” (o Destino dei Personaggi), che fino a quel momento era stato ostile e contrario agli avventurieri, cominciò invece a mostrar loro la sua faccia più amichevole, tramutando in fendenti critici e danni letali quelli che, fino ad allora, erano stati maldestri e innocui tentativi di colpire gli avversari.
L’imprevedibilità del Dado fa sì che singoli individui come interi gruppi di avventurieri, specie se alle prime armi, scompaiano per sempre dalla storia o al contrario ne diventino i protagonisti leggendari. Tutti hanno sentito parlare di Legolas Elfoladro, ma chi ricorda l’halfling senza nome che giace sepolto sotto una montagna di letame in una lontana caverna sotterranea? Eppure entrambi erano partiti con le medesime ambizioni e sfruttando talenti simili. Ma laddove il primo aveva superato sfide mortali anche grazie alla fortuna, l’altro era caduto per un banale scherzo del Dado alla prima prova cui era stato sottoposto.
Fu grazie a questa imprevedibilità che il gruppo sconfisse Jakk e depurò le acque dal morbo che aveva contagiato Passo Duvik. Tornando in superficie, gli avventurieri si fermarono di nuovo dai coboldi che, oltre a consegnare tutto il proprio tesoro, furono anche costretti ad abbandonare la miniera che avrebbe dovuto tornare in possesso degli abitanti della valle. L’unico a rammaricarsene fu Tzortzz che già pregustava di fare strage di quelle “immonde creature”, ma che fu trattenuto dal compierla da un’insolita quanto inconsueta propensione al bene che era infine prevalsa fra gli altri membri del gruppo.
Tornati al villaggio, gli avventurieri ottennero la ricompensa pattuita, ma vennero a conoscenza del fatto che, in sprezzo alla quarantena imposta dalle autorità, una carovana di mercanti era partita il giorno precedente da Passo Duvik trasportando un carico di merci e persone, assai probabilmente infette, che avrebbero potuto diffondere la terribile malattia ad ogni tappa del viaggio. La carovana era diretta verso la ricca e munifica città di Svarozki, al di là del Deserto di Roccia, per rifornire d’argento e altri minerali preziosi gli impareggiabili artigiani locali, disposti, dal canto loro, a pagare qualsiasi cifra in cambio di quelle materie prime da cui avrebbero poi ricavato gioielli unici e favolosi capaci di ripagarli ampiamente delle spese sostenute.
La corporazione dei mercanti di Passo Duvik si auspicava che gli avventurieri sarebbero riusciti ad intercettare la carovana prima che questa facesse la sua prima sosta nelle terre civilizzate, ovvero raggiungesse la fortezza nanica di Dordukr, che sorvegliava l’accesso alla cosiddetta Via dell’Argento, e ne riconducesse indietro il carico o quantomeno si accertasse che non vi fossero pericoli di contagio. I membri della corporazione offrivano al gruppo una lauta ricompensa e l’ausilio di una guida esperta della regione, ma esigevano in cambio la massima riservatezza preoccupati che non si diffondesse la notizia che alcuni loro affiliati fossero stati disposti a rischiare una pandemia pur di vendere qualche lingotto d’argento in più.
“In questo caso vogliamo di più”, si affrettò a precisare Tibidì. “Dalle mie parti il silenzio si compra a parte”.
“Giusto”, rincarò Tzortzz. “Noi siamo abituati ad esportare il bene e l’idea di mentire non fa parte del mio codice morale, ma, a certe ragionevoli condizioni, potrei accettare di omettere”.
I mercanti non poterono ostentare le consuete orecchie e, a malincuore, accettarono di aggiungere un premio riservatezza in sonanti pezzi d’oro.
“E i cavalli?”, chiese Raba. “Come si fa ad organizzare un inseguimento a piedi?”.
“Io ho bisogno dell’equipaggiamento”, aggiunse Pfoffo che girava ancora praticamente nudo.
“E a me non dispiacerebbe riposarmi in un soffice letto”, concluse Def Hunter.
Seppur spazientiti, i mercanti soddisfarono tutte le richieste degli avventurieri: la scuderia “Ferrare” fornì i cinque cavalli da sella, un mulo da carico e tutta l’attrezzatura necessaria; l'”Emporio Armati” distribuì l’equipaggiamento standard e le munizioni per le armi da lancio; la “Gran Locanda Eccelsa”, infine, si occupò del vitto e dell’alloggio.
Rifocillati, rinfrancati e ricaricati, gli avventurieri si disposero a partire il giorno seguente accompagnati dalla più esperta guida della regione, il guardiacaccia e noto conoscitore di scorciatoie, Herrando Trabozki. Il piano da questi elaborato era quello di tagliare attraverso l’infido Deserto di Roccia in modo da recuperare il più velocemente possibile lo svantaggio dalla carovana costretta invece a girarvi intorno, quindi seguire il profilo dell’altopiano per sopravanzarla mentre essa ancora arrancava faticosamente sui pendii all’uscita della valle, e infine intercettarla all’imbocco della pianura sottostante.
Poco interessati al piano di Herrando e ignari di ciò che poteva attenderli durante l’attraversamento del Deserto di Roccia, gli avventurieri si apprestarono a partire, matematicamente certi di poter facilmente recuperare il ritardo accumulato e di concludere in breve tempo anche questa missione. Solo quando si accorsero che il paesaggio circostante ed il clima avevano subito un deciso ed improvviso cambiamento, essi iniziarono a porre delle domande al guardiacaccia, che pure, fin dalla partenza, non aveva mai smesso di raccontare e descrivere ciò che li aspettava, senza tuttavia destare in loro troppo interesse.
Di colpo, infatti, l’aria si era fatta satura di elettricità e difficile da respirare, mentre il terreno era diventato accidentato e brullo, costellato, fin dove spaziava lo sguardo, da picchi rocciosi di forma rozzamente regolare, in gran parte diroccati e spaccati come alberi colpiti da fulmini di inaudita violenza.
Se anziché raccontarsi storie di risoluti eroi della letteratura, gli avventurieri avessero ascoltato Herrando, avrebbero subito ricordato che i picchi altro non erano che vestigia di un remoto passato risalente al periodo in cui i Signori della Guerra bugbear dominavano la regione, ossia prima dell’avvento di umani ed elfi e prima che essa, in seguito alle terribili battaglie che si combatterono con il loro avvento, si trasformasse in un arido ed infido deserto di roccia.
“Come mai lo chiamano infido Deserto di Roccia?”, domandò quindi Raba.
“È per via delle tempeste di energia che ogni tanto vi si abbattono e che raramente danno scampo a chi lo attraversa”, rispose Herrando. “Ma non preoccupatevi, non è questa la stagione in cui sono solite verificarsi”.
Un sordo brontolio accompagnò le ultime parole di Herrando facendolo sbiancare in volto.
“E se invece dovessero verificarsi?”, chiese nervosamente Tibidi, “Come farebbe a sopravvivere chi lo attraversa?”.
Il brontolio divenne un tuono fragoroso ed il cielo si fece improvvisamente scuro, mentre un forte vento cominciò ad ostacolare la marcia degli avventurieri.
“Trovando un riparo il più velocemente possibile!”, rispose la guida urlando per farsi sentire nel frastuono causato da una scarica di tuoni seguiti dal crepitio dei primi fulmini che andavano formandosi tra le nubi sempre più spaventosamente nere.
Prima che l’oscurità avvolgesse tutto, Herrando indicò un grosso tumulo di pietra che si ergeva a breve distanza da loro come il luogo idoneo a trovare riparo dalla tempesta. Gli avventurieri spronarono a sangue le atterrite cavalcature per raggiungerlo il più in fretta possibile poiché i fulmini cominciavano ad abbattersi sin troppo vicino e nessuno voleva saggiarne la potenza sulla propria pelle. Giunti nei pressi del tumulo, si avvidero subito della massiccia porta ad arco ricavata nel fianco della collina che conduceva in una stanza quadrata le cui pareti mostravano segni di antiche decorazioni e ornamenti ormai in gran parte scrostati e rovinati. La zona sembrava piuttosto solida per resistere agli scoppi dei fulmini e abbastanza larga per ospitare gli avventurieri e le loro cavalcature fino a quando non si fosse placata la tempesta. Le tre massicce porte di pietra che si aprivano nella stanza, e che presumibilmente conducevano all’interno del tumulo, erano bloccate e sigillate da tempo immemore e avrebbero pertanto tenuto dentro gli eventuali pericoli vi si fossero celati. Inoltre, un’antica usanza del luogo imponeva che durante le tempeste fossero cessate tutte le ostilità ed era talmente presa sul serio che si raccontava di un drago ed un bardo che, riparatisi entrambi nella stessa caverna per scampare ai mortali fulmini, avessero passato la notte a scambiarsi aneddoti prima di riprendere ognuno la propria strada. O quantomeno questo era quello che di certo aveva fatto il drago.
“Non vi sembra strano che una tempesta ci colga nella stagione più improbabile e ci induca a riparare in un tumulo le cui porte sono sigillate da secoli?”, borbottò Pfoffo.
“Non fare del meta pensiero”, lo ammonì Raba riferendosi alla tendenza, propria di molti avventurieri, di ritenersi vittime o protagonisti inconsapevoli di un destino predeterminato da entità superiori. “Io sono più preoccupato del ritardo ulteriore che accumuleremo nei confronti della carovana”, aggiunse in tono grave.
“Non ci sono problemi”, intervenne Herrando sorridendo. “Conosco una scorciatoia che ci farà recuperare il tempo perduto”.
“Non so perché”, commentò Def Hunter sarcastico “ma non mi sento per niente sollevato”.
***
Con la tempesta che non accennava a diminuire di intensità, gli avventurieri stabilirono di passare la notte nel tumulo e, dopo essersi rifocillati, approntarono i classici turni di guardia per non rischiare di essere colti impreparati dall’evento che tutti, eccetto Raba, si aspettavano di lì a poco.
Intorno alla mezzanotte, infatti, mentre la tempesta raggiungeva il culmine, un fulmine di enorme violenza colpì in pieno il tumulo facendolo scuotere fin dalle fondamente e provocando l’apertura delle tre porte sigillate da secoli. Gli avventurieri ebbero pochi istanti per riprendersi dal terribile schianto prima che da queste fuoriuscisse una miriade di grossi ratti impazziti dal terrore e disposti a passare sopra qualsiasi ostacolo pur di guadagnare l’uscita.
Il gruppo fu investito dallo sciame di ratti come un’isola dai flutti di un mare in burrasca, e per un attimo sembrò quasi che ne venisse sommerso. Poi, d’un tratto, cominciarono a volare dappertutto i corpi straziati dei roditori e i sopravvissuti impararono che era molto meglio lambire alla larga quell’isola dalle coste munite d’acciaio affilato piuttosto che cercare di scavalcarla.
Quando infine l’ultimo ratto ebbe abbandonato la stanza, gli avventurieri fissarono con apprensione le porte spalancate, che da lontano ricambiavano lo sguardo con il loro occhio profondo e tenebroso, temendo che ne scaturissero ben altri orrori. Il rumore della tempesta, che pure continuava ad imperversare fuori, giungeva ora ovattato dal silenzio carico di tensione e aspettativa che era calato nella stanza. Passarono alcuni istanti durante i quali ciascun personaggio formulò il più rapidamente possibile il proprio piano d’azione per respingere l’attesa minaccia che, tuttavia, tardava a manifestarsi.
“Davvero imprevedibile!”, esclamò improvvisamente Pfoffo. “Un’antica tomba sigillata che decide di auto profanarsi proprio la notte in cui un gruppo di avventurieri vi trova riparo per sfuggire ad una tempesta di fulmini mortali scoppiata nella stagione in cui è più raro che si verifichi… Incredibile!”.
“Suggerisco di esplorare tutti e tre i passaggi”, disse Raba fingendo di non cogliere il tono sarcastico del nano.
“Perché per una volta non aspettiamo che siano i mostri a venirne fuori?”, ribattè Pfoffo.
“Come ben saprai”, intervenne Tibidi, “il male non ama uscire dal suo nascondiglio”.
“E nemmeno apre le porte”, aggiunse Def Hunter.
“Come minimo deve bussare”, concluse Tzortzz.
Per quanto la riflessione di Pfoffo fosse sembrata a tutti ragionevole, la maggioranza del gruppo si risolse a seguire il consiglio di Raba e, lasciato Herrando a guardia dei cavalli, i cinque avventurieri attraversarono la prima porta, quella che conduceva a nord direttamente nel cuore del tumulo. Qui, dopo aver eliminato un ragno mostruoso e molto affamato, trovarono il sepolcro del grande guerriero bugbear in cui onore era stata eretta questa tomba. Il suo corpo riposava su un tavolo di pietra con indosso l’armatura da battaglia e le mani strette intorno all’impugnatura di una splendida morning star per nulla intaccata dallo scorrere del tempo. Le pareti erano decorate con rozze raffigurazioni delle gesta compiute in battaglia dal defunto che veniva ricordato in più occasioni come Alf-Hoggvar, il Mietitore di Elfi e sparse sul terreno vi erano le ossa di prigionieri uccisi al momento della sua inumazione.
Non appena il primo personaggio mise piede nella stanza, il corpo del guerriero si sollevò sul tavolo brandendo la morning star che iniziò a roteare sulla propria testa, mentre gli scheletri dei suoi servi si rianimavano per difenderlo. A nulla valsero le preghiere che Tzortzz rivolse accorato a Corellon affinché le orrende creature non morte retrocedessero nell’oscurità senza nuocere, perché troppo forte era il legame che li univa alla loro ultima dimora. Occorreva dunque distruggerle con l’acciaio o con la magia, ma il nemico era animato da una medesima volontà distruttiva e pertanto si rivelò un’impresa formidabile. Fu solo quando Raba cadde in preda all’ira dell’orso, la furia omicida che improvvisamente pervade i barbari in battaglia, che le sorti dello scontro si risollevarono a favore del gruppo. Una sua serie micidiale di attacchi pose fine alla non vita del guerriero bugbear e poco dopo anche gli scheletri tornarono ad essere mucchi d’ossa inanimate. Il gruppo se l’era cavata tutto sommato bene, senza perdite e con solo un ferito da rianimare; in compenso potevano impossessarsi del tesoro appartenuto al guerrierio: la sua splendida morning star, bilanciata in modo perfetto, e alcuni oggetti che si sarebbero rivelati magici e particolarmente utili.
“E rimangono ancora due porte”, commentò Tibidi sfregandosi le mani.
Tornati nella stanza principale, tuttavia, gli avventurieri si avvidero che Herrando e le cavalcature erano scomparsi. Le tracce indicavano che si erano diretti fuori dal tumulo e, ormai che la tempesta si era placata, potevano essere andati in ogni direzione.
“Non vedo segni di lotta”, commentò Tzortzz dopo aver studiato minuziosamente il terreno. “Sembra proprio che Herrando se ne sia andato di sua volontà”.
“Dobbiamo raggiungerlo e recuperare perlomeno i cavalli”, esortò Pfoffo.
“E la sua testa”, aggiunse trucemente Raba che ancora faticava a riprendersi dall’ira dell’orso.
Il gruppo si lanciò all’inseguimento di Herrando e delle cavalcature le cui tracce mai sfuggivano all’incredibile talento di Tzortzz nel notare ogni minimo dettaglio del terreno e presto li avvistarono accampati per la notte su una collinetta a pochi chilometri di distanza. Raddoppiando gli sforzi, gli avventurieri percorsero la strada che ancora li separava, ma giunti vicino al fuoco si bloccarono inorriditi alla vista di un essere alato intento ad aprirsi un varco nel cranio di Herrando che giaceva a terra privo di conoscenza. La creatura sollevò la bocca dal fiero pasto e si guardò intorno fiutando pesantemente l’aria: aveva avvertito la presenza dei personaggi, ma, non riuscendo a vederli, stava cominciando a spazientirsi. Nonostante l’orrore, il gruppo riuscì a sfruttare l’effetto sorpresa e a costringere la bestia a fuggire dopo aver subito ingenti danni. Subito, Tzortzz si chinò su Herrando, ormai in fin di vita, e raccomandandosi a Corellon riuscì a sanargli le terribili ferite del corpo, ma non quelle della mente sconvolta dal contatto con i denti della creatura. Il poveretto, infatti, aveva dimenticato quasi tutto del suo passato e nessuno seppe mai se e perché si era allontanato dal tumulo di sua volontà o se era stata quell’orrenda creatura ad irretirlo per poi cibarsene. Di certo, il suo ruolo nell’economia del gruppo era passato da “insostituibile guida per attraversare terre ignote” a “inutile peso da trascinarsi dietro” e questo non alimentava la pietà nei suoi confronti. Fortunatamente i cavalli sembravano salvi e, se anche ormai nessuno sperava più di raggiungere la carovana dei veleni, la prospettiva di continuare l’inseguimento a piedi era apparsa sicuramente peggiore.
In un barlume di lucidità, Herrando indicò ai personaggi una scorciatoia per uscire velocemente dal Deserto di Roccia e finalmente, dopo un paio di giorni di viaggio, il gruppo raggiunse l’orlo dell’altopiano che sovrasta le fertili pianure di Kish, terre intrise di fiumi e di canali, ma anche del sangue dei tanti che se le sono contese nel passato. Al tempo in cui i personaggi le stavano osservando dai contrafforti dell’altopiano, esse rientravano, almeno formalmente, nella giurisdizione del khanato nanico di Svartalfaheimr anche se gli insediamenti che vi sorgevano godevano in realtà di una piena e sostanziale indipendenza che, se da un lato li esentava dal pagare gran parte delle esose tasse che annualmente i burocrati nani emanavano, dall’altro li esponeva agli attacchi dei goblin che infestavano indisturbati le pendici dei monti e le rovine di antichi villaggi abbandonati. Oltre a raid e incursioni, poteva capitare che gli abitanti delle pianure dovessero pagare un tributo ad una tribù goblin particolarmente forte oppure, viceversa, che si instaurassero brevi periodi di tregua durante i quali le due comunità avverse commerciavano fra loro con reciproca soddisfazione.
Quest’ultimo è il caso di Collequercia il primo villaggio che i personaggi avrebbero incontrato dopo essere scesi giù dall’altopiano sul quale si estendeva il Deserto di Roccia. Si tratta di una delle comunità più piccole della regione che sorge nelle vicinanze di un antico insediamento elfico sprofondato in tempi remoti nelle viscere della terra in seguito ad un terribile terremoto. Il luogo è ora soprannominato la Cittadella senza Sole ed è abitato da una tribù di goblin che ha instaurato un curioso commercio con Collequercia: ogni sei mesi, infatti, i goblin portano al mercato cittadino un esemplare di un frutto misterioso che, in rari casi è mortale, ma che per la maggior parte ha effetti curativi prodigiosi. Essi sostengono di coglierlo da un albero maestoso che cresce nelle profondità della terra, ma nessuno nel villaggio ci crede, né è molto interessato a conoscerne la reale provenienza. Negli ultimi tempi, tuttavia, il rapporto con i goblin si è molto deteriorato. Ci sono stati dei morti da entrambe le parti e delle misteriose aggressioni nelle campagne. Il conestabile di Collequercia ha accettato di inviare un gruppo di mercenari ad indagare nella Cittadella, ma, dopo tre mesi, nessuno di questi è ancora tornato e tutti ormai li credono morti. L’unica che non si rassegna è Madame Hucrele i cui due figli facevano parte della spedizione e che adesso sta cercando con ogni mezzo di reperire informazioni sulla loro sorte.
E fu così che, accettando di interessarsi alla sorte dei fratelli Hucrele e ad ulteriore discapito dell’inseguimento della carovana, il destino dei personaggi si incrociò con quello di Ayra, la giovane accolita del locale Tempio di Pelor che ardeva dal desiderio di intraprendere la strada dell’avventuriero.